Mala Boka. La prima volta che ho sentito questo nome neanche sapevo si trattasse di una grotta. Da allora ne è passata parecchia di acqua sotto i ponti – e nei sifoni. I miei compagni di avventure non si sono certo risparmiati nei loro racconti rocamboleschi sulla traversata sotterranea che dall’ingresso del BC4 a 1730 metri di altitudine, porta all’uscita della Mala Boka, a due passi dal centro di Bovec (432 m). Così, più curiosa che mai, quando Kraft e Roli mi hanno proposto di unirmi a loro per l’esplorazione di un ramo laterale, non ho saputo resistere.
Scegliamo due giorni particolarmente freddi e ventosi: condizioni perfette per scendere nelle profondità della terra, anche se un po’ irritanti per percorrere i pendii di neve gelata che salgono all’ingresso della grotta. “Meglio così, una volta dentro ci sembrerà di fare la sauna!” Commenta Kraft, mentre io acchiappo per un soffio la giacca di Roli, che stufa della nostra compagnia ha deciso di volare a valle.
Entriamo velocemente nel BC4, cimentandoci con le prime calate negli stretti pozzi dell’ingresso. Man mano che scendiamo la grotta si allarga, comoda e scintillante. “Wow, che spettaccolo!” Commento io, estasiata.
“Vedrai quando arriveremo a Nutella Killer.” Ridacchia Roli.
In effetti, il meandro rende giustizia al suo nome: un budello melmoso e scivoloso da cui usciamo color del cioccolato. Il sapore però non è altrettanto piacevole, penso fra me dopo essermi passata per sbaglio un guanto infangato sulla faccia.
Quando raggiungiamo il ramo da esplorare, lì in attesa da ormai cinque anni, l’entusiasmo è alle stelle: chissà a quali nuove scoperte porterà quest’avventura! La speranza è identificare un altro ingresso alla grotta, possibilmente più in alto del BC4, che permetterebbe di aumentare ulteriormente la profondità della traversata. Sarebbe un bel colpo, ma di strada da fare ce n’è ancora parecchia e, come se non bastasse, è tutta in salita. Kraft si prepara a scalare in artificiale un ripido pozzo bagnato, mentre io e Roli gli facciamo assistenza – soprattutto morale – da sotto. “Dai, che sei quasi a metà!” Lo incito io, mentre il ragazzo biondo cerca di trapanare il foro per lo spit, appeso a un cliff quantomai precario.
“Mmm, mi sa neanche un terzo.” Borbotta Roli.
“Ma chi ben comincia…” Gli do corda io, ridacchiando.
Kraft ci manda a quel paese, avvita lo spit e riprende l’ascesa. Finalmente, quando le mie ossa intirizzite stanno ormai iniziando a fossilizzarsi, il nostro scalatore fissa la corda in cima al pozzo. Risaliamo curiosi e, una volta su, io schizzo subito avanti per delle roccette viscide e un po’ marce, ansiosa di scoprire cosa c’è oltre. In un attimo sono su una specie di cengia e…inizia a piovermi in testa. Mi tiro indietro, infastidita, poi risalgo stando più a destra. Sopra di me c’è un pozzo gigantesco, perfettamente levigato, con una piccola cascata nel mezzo. Molto bello, suggestivo e promettente. Chiamo contenta Kraft e Roli, che mi sono accanto in un attimo. Guardiamo in su, soddisfatti, poi controlliamo l’orologio: è mezzanotte e il campo è ancora lontano.
“Per risalire questo ci vorranno chissà quante ore…” Dichiaro, sbadigliando.
Roli sbadiglia di rimando: sta dormendo in piedi. Kraft è visibilmente indeciso. Io non so che dire: vorrei andare avanti, ma sono estenuata. Alla fine, anche se a malincuore, concordiamo tutti che è il momento di fare dietrofront. Così lasciamo una corda e qualche fix alla base del pozzo, pronti per la prossima sortita, e ci dirigiamo verso il campo. “Magari dal rilievo si riuscirà a capire dove punta il ramo e potremo cercare direttamente l’ingresso esterno…” Borbotta Kraft speranzoso, mentre torniamo alle gallerie principali, pronti ad affrontare la strada che ci separa dal sacco a pelo.
“Non me la ricordavo così lunga.” Cerca di giustificarsi Kraft per la quinta volta, dopo più di quattro ore che vaghiamo per saloni, gallerie e pozzi.
Arriviamo alle baracche di teli termici in tempo per la colazione e, dopo tre ore di dormiveglia, siamo già pronti a ripartire, motivati dal freddo pungente. Man mano che proseguiamo, la grotta sembra svegliarsi: ci abbraccia, magica di suoni e di immagini. Sempre più bella, affascinante, spettacolare, si getta infine nel canyon vivo e danzante di acqua. Siamo ora nel cuore pulsante della Mala Boka, in questo immenso meandro lavorato dai millenni, con pareti scolpite che salgono fino a confondersi nelle tenebre e il torrente che zampilla cristallino sotto i nostri piedi. I passaggi sono mozzafiato, ma piuttosto acrobatici: si procede in spaccata, o con la schiena di qua e le gambe di là, spesso a precipizio sul vuoto. La roccia è levigata, scintillante ed estremamente scivolosa.
Tornati finalmente al livello dell’acqua, sguazziamo nel fiume sotterraneo per tutto l’ultimo tratto, con il pensiero che corre sempre più spesso al famoso sifone finale: si riuscirà a passare? Se fosse allagato – cosa che succede spesso nei periodi piovosi – ci toccherebbe rifarci in senso inverso tutta la strada appena percorsa, ossia 8 chilometri e 1300 metri di profondità: prospettiva tutt’altro allettante, considerato anche che abbiamo finito le scorte di cibo.
Secondo le valutazioni attentamente discusse prima di partire, il sifone dovrebbe essere aperto. ‘Dovrebbe’, eppure nessuno di noi tre ne è del tutto convinto e siamo sempre più ansiosi di vedere con i nostri occhi. Superiamo un’alta camera sotterranea, tutta decorata da uno stranissimo alfabeto, a metà tra il greco e il russo, misterioso e difficilmente interpretabile. “Per chi non credesse agli alieni…” Rido io, con una sorta di ammirazione reverenziale per quest’altro segreto che ci regala la roccia. Passato un laminatoio che sembra non finire mai e una condotta circolare decorata da migliaia di scallops, affrontiamo infine la calata decisiva: mi lancio giù, usando il discensore solo per rallentare leggermente la mia picchiata. Atterro con un salto in una pozza d’acqua…brutto segno. Mi guardo intorno, scoprendo con sollievo che si tratta solo di un’innocua pozzanghera. ‘Massì, era ovvio’. Commento fra me. Ma so benissimo che niente è ovvio nella vita. E in grotta men che meno.
Ancora qualche acrobazia sugli ultimi laghetti cristallini, appesi su corde consumate ormai più sottili di lacci da scarpe, e siamo fuori: enormemente soddisfatti e incredibilmente asciutti – piedi a parte, s’intende. Il cielo serale, decorato da qualche stella che sbuca tra le nuvole, fa capolino dall’immensa voragine rocciosa dell’ingresso. Tutto intorno a noi c’è un’aura sospesa, avvolgente, come se la notte di fine inverno fosse accogliente e nostalgica al tempo stesso. Mentre percorriamo gli ultimi metri verso Bovec, mi guardo indietro un’ultima volta: la Mala Boka è davvero un luogo incredibile, tanto magicamente vera, quanto semplicemente bella. Già non vedo l’ora di tornare.
Sara Segantin
23-24 febbraio, 2019